Canoni non percepiti da dichiarare se l’immobile locato non è a uso abitativo

Disparità di trattamento fiscale tra immobili locati, abitativi e non, in caso di morosità del conduttore
L’art. 8 comma 5 della L. n. 413/1998, nell’ambito della riforma della disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo, ha introdotto due nuovi periodi all’art. 26 comma 1 del TUIR, stabilendo che: “I redditi derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono a formare il reddito dal momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore. Per le imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti come da accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità è riconosciuto un credito di imposta di pari ammontare”.
Nel commentare le suddette novità, la C.M. 7 luglio 1999 n. 150 (§ 1.1) ha affermato che, il legislatore ha derogato, anche se soltanto con riferimento ai redditi derivanti dalla locazione di immobili adibiti ad uso abitativo, al principio generale di imputazione dei redditi fondiari contenuto nell’art. 26, comma 1 del TUIR, cioè al criterio di imputazione temporale per competenza dei redditi derivanti dai canoni di locazione, “indipendentemente dal momento dell’effettiva percezione dei canoni” stessi. In aggiunta, è stato affermato che “resta fermo, naturalmente, che per gli immobili locati per uso diverso da quello abitativo, nonché in assenza di un procedimento giurisdizionale concluso, il canone di locazione va comunque sempre dichiarato così come risultante dal contratto di locazione, ancorché non percepito, rilevando in tal caso il momento formativo del reddito e non quello percettivo”.
La successiva C.M. 19 maggio 2000 n. 101 (§ 5.2) ha ribadito che “tale deroga concerne esclusivamente gli immobili locati per uso abitativo”.
Pertanto, sulla base del tenore letterale delle disposizioni in esame e dei suddetti chiarimenti dell’Amministrazione finanziaria, le deroghe previste dal secondo e terzo periodo dell’art. 26 comma 1 del TUIR si applicano solo nei confronti degli immobili adibiti ad uso abitativo e non anche a quelli adibiti ad uso non abitativo (es. locazioni di locali commerciali, studi professionali, capannoni industriali, alberghi, ecc. disciplinate dagli artt. 27 ss. della L. n. 392/78) (in tal senso Cass. 18 gennaio 2012 n. 651 e C.T. Reg. Torino 8 luglio 2010 n. 53/5/10).
La Corte di Cassazione, con la sentenza 7 maggio 2003 n. 691, ha però affermato che, in base ai principi di capacità contributiva (art. 53 della Costituzione) e di buona fede (Statuto dei diritti del contribuente di cui alla L. n. 212/2000), laddove i redditi fondiari non siano determinati sulla base della rendita catastale ma sulla base dei contratti di locazione:
- “i dati contrattuali forniscono solo una indicazione presuntiva”, poiché, di regola, i proprietari percepiscono il canone indicato nel contratto;
- “deve essere consentita la prova contraria, così come nel caso di specie avvenuto attraverso elementi indiziari (quale la procedura di sfratto per morosità) che il giudice di merito ha con insindacabile e non contestato giudizio ritenuto congrui”.
Tuttavia, tale pronuncia favorevole al contribuente risulta al momento isolata ed è stata espressamente smentita da Cass. 18 gennaio 2012 n. 651.
Per gli immobili locati per uso diverso da quello abitativo, quindi, il canone derivante dalla locazione dell’immobile “va comunque sempre dichiarato così come risultante dal contratto di locazione, ancorché non percepito, rilevando in tal caso il momento formativo del reddito e non quello percettivo” (cfr. la C.M. n. 150/E/99).
Sulla base della sentenza della Corte costituzionale 26 luglio 2000 n. 362, ripresa dalla Corte di Cassazione con le sentenze 1 giugno 2007 n. 12905 e 18 gennaio 2012 n. 651, il riferimento al reddito derivante dai canoni di locazione (ancorché non percepiti) si applica però solo fino a quando risulta in essere un contratto di locazione, venendo meno allorché la locazione sia cessata, per qualsivoglia motivo, ad esempio per scadenza del termine (art. 1596 c.c.), ovvero quando si sia verificata una qualsiasi causa di risoluzione del contratto, ivi comprese quelle di inadempimento in presenza di clausola risolutiva espressa e di dichiarazione di avvalersi della clausola (art. 1456 c.c.), o di risoluzione a seguito di diffida ad adempiere (art. 1454 c.c).
Come osservato da Corte Cost. n. 362/2000, infatti, “la risoluzione del contratto impedisce di configurare il pagamento, effettivo o solo presunto, come effettuato a titolo di canone, cui possa essere commisurata la base imponibile ai fini dell’imposta sul reddito”; tuttavia, la risoluzione consensuale del contratto, in assenza di una manifestazione inequivoca di volontà della parti che vada in tal senso, non può produrre effetti retroattivi (Cassazione 18 novembre 2005 n. 24444 e 1 giugno 2007 n. 12905).
Una volta intervenuta una qualsiasi causa di risoluzione del contratto di locazione, invece, ai fini della determinazione del reddito generato dall’immobile, non rileva più il canone di locazione pattuito, bensì la rendita catastale rivalutata del 5%.
Risulta evidente che il momento di cessazione del contratto di locazione varia a seconda della causa che l’ha determinato.
Al riguardo, la Corte ha chiarito che gli effetti della risoluzione giudiziale, sebbene la relativa pronuncia abbia carattere costitutivo, retroagiscono, con la conseguenza che il contratto cessa dal momento in cui si è verificata la causa della risoluzione, e non dal momento in cui viene resa la sentenza.
In conclusione, per le unità immobiliari non abitative, fino alla risoluzione del contratto, le imposte sui canoni non percepiti devono essere pagate e non vi è insorgenza di alcun credito d’imposta (contrariamente a quanto avviene in caso di immobili abitativi), né, tanto meno, di un diritto al rimborso.
Fonte: Eutekne autore Arianna Zeni

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