L’omesso invio della dichiarazione d’intento è errore «non punibile»

Per la C.T. Prov. di Varese, la sanzione prevista può essere disapplicata dal giudice
Gli esportatori abituali che fatturano ai propri clienti in regime di non imponibilità IVA, ove acquistino prodotti e servizi dai propri fornitori subendo la rivalsa ordinaria del tributo, verrebbero a trovarsi in una situazione creditoria strutturale, con ciò dovendo immobilizzare ingenti risorse monetarie in attesa di poter ricevere a rimborso il credito, ovvero di poterlo compensare con altre imposte o contributi dovuti.
Per sottrarsi a tale prospettiva è stata, allora, introdotta una possibilità per le imprese di evitare detto aggravio finanziario e, quindi, rispettando certi presupposti e procedure, è possibile effettuare acquisti senza corrispondere ai fornitori l’IVA sui beni e servizi acquistati. Gli esportatori abituali, quindi, sono ammessi ad acquistare beni e servizi senza dover corrispondere l’IVA, poiché l’art. 8, comma 1, lett. c) del DPR n. 633/72 stabilisce che costituiscono operazioni all’esportazione, non imponibili ai fini IVA, le cessioni e le prestazioni rese a soggetti che operano abitualmente con l’estero.
In linea generale, assume lo status di esportatore abituale chi, nell’anno solare precedente (“plafond fisso”) o nei dodici mesi precedenti (“plafond mobile”), ha registrato esportazioni e altre operazioni ad esse assimilate per un ammontare superiore al 10% del volume d’affari conseguito nello stesso periodo e, quindi, dopo aver verificato la sussistenza di un valido plafond, l’esportatore abituale può inviare una cosiddetta “dichiarazione d’intento” ai suoi fornitori per agire in sospensione d’imposta, mentre chi riceve tale comunicazione deve procedere ad un invio telematico della stessa all’Agenzia (ex art. 1, comma 381 della L. 311/2004), il cui termine ultimo di spedizione, ex art. 2, comma 4 del DL 16/2012, è stato recentemente individuato “entro il termine di effettuazione della prima liquidazione periodica IVA, mensile o trimestrale, nella quale confluiscono le operazioni realizzate senza applicazione dell’imposta”.
Sotto il profilo sanzionatorio, invece, è prevista la sanzione amministrativa dal 100 al 200% dell’imposta, ex art. 7, comma 4-bis del DLgs. n. 471/1997, per il cedente/prestatore che ometta di inviarla nei termini previsti.
A fronte proprio dell’omissione dell’invio di una dichiarazione d’intento, l’Agenzia delle Entrate di Varese contestava l’amnesia di un contribuente, irrogando la predetta sanzione che, stante la rilevante cifra d’affari movimentata nel periodo dalla società accertata, ammontava ad oltre un milione di euro. Con un pronunciamento, però, che si qualifica per un illuminato processo di interpretazione sostanziale della norma, la C.T. Prov. di Varese (sentenza n. 15/12/13, depositata il 23 gennaio 2013) ha annullato l’atto, affermando che “il mancato invio della dichiarazione d’intento non può essere equiparato ad assenza della stessa” e, quindi, tale inadempimento è da ritenersi sanzionabile solo quando “il fornitore, pur in assenza della dichiarazione dell’esportatore abituale compie operazioni in assenza di IVA”.
In sostanza, se non si manifestano alterazioni sostanziali nell’assolvimento del tributo ed in presenza di tutti i presupposti che giustificano la sospensione dal tributo stesso, l’eventuale omesso invio della dichiarazione d’intento si configura come mera irregolarità formale non punibile, in ossequio a quanto “previsto dall’articolo 6 decreto legislativo n. 472/1997, comma 5-bis, che dichiara non punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio alla azione di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo”.
Con buona pace della circ. n. 10 del 16 marzo 2005 (punto 9.6) che, invece, aveva affermato esattamente l’opposto e ritenuto l’omissione in argomento incidente sulle attività di controllo degli Uffici, al punto da ritenere impropria anche la più mite sanzione, ex art. 11, lett. a) del DLgs. 471/1997 (da 258 a 2.065 euro, per omissione di comunicazioni previste dalla legge tributaria), avvalorando, al contrario, la tesi “che la norma intende colpire il comportamento del cedente o prestatore che ometta l’invio della comunicazione, senza che venga in rilievo l’eventuale regolarità della cessione o prestazione in sospensione e la conseguente evasione di imposta, ipotesi questa già disciplinata dal comma 3 dell’art. 7 del DLgs. del 18 dicembre 1997, n. 471”.
Per i giudici varesini, invece, una mera omessa comunicazione, se comunque afferente operazioni legittimamente effettuate in sospensione di imposta, non solo non è punibile, ma giustifica anche la soccombenza in giudizio del Fisco alle spese di lite. Francamente, però, stante la disapplicazione sanzionatoria, per principio di sistema, di una disposizione che, tuttavia, è pur sempre espressamente e specificatamente prevista dall’ordinamento e non sembrando, peraltro, quella dell’Amministrazione una condotta processuale né biasimevole, né illecita, l’assenza di una compensazione delle spese di lite per giustificato ed “eccezionale motivo” in favore della parte soccombente (compensazione, invece, troppo spesso ancora immotivatamente e diffusamente accordata dai giudici di prime cure, come se la riforma del processo civile, ex L. n. 69/2009, non fosse avvenuta) appare l’aspetto meno luminoso del pronunciamento.
Fonte: Eutekne autore Antonio ZAPPI  

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