Per Unico test sugli interpelli

In caso di risposta negativa il bivio fra l'adeguamento e l'impugnazione
Con l'avvicinarsi della scandenza di Unico 2013 arrivano anche le risposte per gli interpelli antielusivi. Entro il prossimo 30 settembre, infatti, i contribuenti che hanno tempestivamente inoltrato le istanze (salvo il caso in cui sia stata richiesta della documentazione integrativa) riceveranno i relativi pareri da parte delle Entrate. Nel caso di responso negativo, i soggetti, oltre al problema collegato agli effetti sfavorevoli della risposta, dovranno affrontare anche la questione relativa all'impugnabilità del diniego. 
A dispetto dell'orientamento espresso dall'agenzia delle Entrate, infatti, per la Cassazione la risposta negativa resa dall'amministrazione finanziaria agli interpelli riguardanti la disapplicazione delle norme elusive ex articolo 37-bis, comma 8 del Dpr 600/1973 costituisce un atto autonomamente impugnabile.
La questione assume rilevanza in quanto, tra le istanze interessate, vi rientrano non solo gli interpelli presentati dalle società di comodo in base all'articolo 30 della legge 724/1994, ma anche quelli previsti dalla disciplina sulle controlled foreign companies previsti dagli articoli 167 e 168 del Tuir.
L'istanza Cfc, infatti, ancorché presentata in base alla procedura dell'interpello ordinario (legge 212/2000), non ha natura consultiva, ma è un interpello le cui caratteristiche ed effetti lo riconducono nell'ambito di quelli "antielusivi" dovendo essere presentato da tutti coloro che non intendono sottostare alla disciplina di sfavore prevista dal Tuir per le società controllate o collegate ubicate in Paesi a fiscalità privilegiata.
Capire se l'eventuale risposta negativa debba essere impugnata appare rilevante al fine di pianificare un'efficace strategia difensiva.
Sul punto, l'Agenzia ha sempre sostenuto la non impugnabilità delle risposte rese in quanto, stante la natura di parere al quale il soggetto può non adeguarsi, le stesse non sarebbero in alcun modo lesive della posizione del contribuente. Inoltre, per le Entrate, le risposte non rientrano tra gli atti impugnabili tassativamente individuati dall'articolo 19 del Dlgs 546/1992.
Di diverso avviso è risultata la Cassazione, la quale è arrivata a stabilire, con la sentenza 8663/2011, non solo l'impugnabilità dell'atto di diniego, ma anche l'obbligatorietà del ricorso. Tuttavia, con la sentenza 17010/2012, la Suprema corte ha mitigato l'orientamento prevedendo una facoltà di impugnazione.
Nella prima sentenza (n. 8663/2011) i giudici hanno osservato come la risposta positiva all'interpello disapplicativo consente al soggetto di sottrarsi agli effetti pregiudizievoli della normativa di sfavore normalmente obbligatoria per la generalità dei contribuenti che, nella medesima situazione, non hanno presentato l'istanza ovvero hanno ricevuto il diniego. Per questi si concretizza quindi un'ipotesi di "agevolazione fiscale". Inoltre, la procedura autorizzativa che si ottiene con il parere positivo non è surrogabile in quanto la mancata determinazione favorevole impone il rispetto della norma antielusiva e la conseguente sottoposizione del soggetto agli effetti sfavorevoli della stessa. Per la Cassazione, pertanto, il diniego ricevuto costituisce «un atto recettizio di immediata rilevanza esterna» direttamente impugnabile innanzi alla Commissione tributaria come atto di diniego di agevolazione tributaria. 
Rientrando tra gli atti tipici impugnabili, il mancato ricorso entro gli ordinari termini dei 60 giorni dalla comunicazione al contribuente rende definitiva la decisione assunta e non più disapplicabile la normativa antielusiva in capo all'istante.
Con la sentenza n. 17010/2012, i supremi giudici tuttavia hanno rettificato le conclusioni assunte in precedenza affermando che l'atto di diniego non può essere fatto rientrare in una delle categorie indicate all'articolo 19 e, pertanto, esso non può ritenersi «obbligatoriamente impugnabile».
Tuttavia, la natura tassativa degli atti oggetto di impugnazione, non comporta l'inammissibilità del ricorso.
In capo al contribuente sussiste, quindi, non l'obbligo, bensì una mera facoltà di impugnazione il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria successivamente.
Questa sentenza, nel derubricare l'impugnabilità da onere a facoltà, rappresenta un compromesso tra coloro che preferiscono ricercare una difesa immediata rispetto a quelli che decidono di attendere la notifica dell'atto accertativo. Tuttavia, l'attuale incertezza mostrata dalla giurisprudenza potrebbe far propendere verso la soluzione più prudenziale dell'impugnazione. 
Sarebbe quindi opportuno un intervento definitivo da parte della Cassazione o, addirittura, del legislatore volto a eliminare le incertezze createsi.
Fonte: Il sole 24 ore autore Riccardo Giorgetti
Rebus sul destinatario del ricorso
Le incertezze intorno al diniego per la disapplicazione delle norme antielusive non riguardano soltanto l'impugnabilità dell'atto, ma si estendono anche all'individuazione del legittimato passivo, vale a dire, il soggetto nei cui confronti deve essere notificato il ricorso.
Nel caso di interpello relativo alle società di comodo, infatti, la risposta viene emessa dalla Direzione regionale dell'agenzia delle Entrate, mentre per le istanze Cfc (controlled foreign companies) la competenza del provvedimento spetta alla Direzione centrale normativa.
Con riferimento agli interpelli riguardanti l'operatività, vi sono state pronunce tra loro discordanti in quanto in alcuni casi la legittimazione è stata attribuita alla Direzione provinciale competente in base alla residenza del contribuente (Commissione tributaria provinviale di Lecce, sentenza del 15 aprile 2008 n.93) ovvero alla Direzione regionale che ha emesso l'atto (Commissione tributaria provinciale di Torino, sentenza del 18 gennaio 2011 n. 5).
Per le istanze Cfc, invece, i possibili soggetti legittimati sono addirittura tre, ossia, la Direzione provinciale, quella regionale o la Direzione centrale.
Una possibile soluzione alla questione può essere, tuttavia, rinvenuta nella sentenza della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia n. 96 del 13 luglio 2012 nella quale i giudici, nell'affermare l'ammissibilità del ricorso proposto nei confronti del diniego alla disapplicazione della disciplina "di comodo", hanno effettuato un articolato ragionamento per giungere a dichiarare legittimata la Direzione provinciale anche se il provvedimento era stato emesso dalla Direzione regionale.
L'articolo 4 del decreto legislativo n. 546/1992, infatti, stabilisce che se la controversia è proposta nei confronti di un'articolazione dell'agenzia delle Entrate con competenza su tutto o parte del territorio nazionale (come è il caso della Direzione centrale o della Direzione regionale) la relativa competenza spetta alla Commissione tributaria provinciale «nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio al quale spettano le attribuzioni sul tributo controverso».
Parimenti, l'articolo 5 del regolamento di amministrazione, previsto dall'articolo 71 del decreto legislativo n. 300/1999, riserva alle Direzioni provinciali la gestione dei tributi, il loro accertamento e il relativo contenzioso.
Ne discende, per i giudici emiliani, che in tutti i casi in cui l'atto cui ci si duole è emanato da un'articolazione territoriale delle Entrate che non sia l'ufficio al quale spettano le attribuzioni sul tributo controverso, la legittimazione passiva processuale spetta a quest'ultimo ufficio.
Pertanto, dato che le istanze si sostanziano in una richiesta di riduzione delle imposte altrimenti dovute, non possono che risultare dotate di legittimazione le Direzioni provinciali competenti alla riscossione dei tributi.
Nei caso dei grandi contribuenti, invece, la legittimazione spetterà alle Direzioni regionali delle Entrate.
Fonte: Il sole 24 ore

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