Cancellazione «fiscale» della società al nodo retroattività

In assenza di espressa previsione normativa, c’è spazio per diverse interpretazioni
L’art. 28 del decreto semplificazioni fiscali stabilisce che “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’art. 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro imprese”.
Siamo pertanto in presenza di un intervallo temporale di cinque anni entro cui, per gli enti impositori, gli enti di previdenza e di assistenza e i contribuenti sono validi gli atti accertativi, di riscossione e di contenzioso emessi nei confronti del soggetto estinto o da questo proposti.
Nel citato art. 28 non è prevista una norma di decorrenza sulla c.d. “irrilevanza quinquennale” della cancellazione della società dal Registro imprese.
Stante la formulazione normativa, appare possibile sia sostenere che essa abbia effetto retroattivo sia l’ipotesi opposta.
È chiaro che il legislatore ha introdotto la norma con l’intento, tra l’altro, di “salvare” i numerosi atti impositivi emessi dagli enti impositori nei confronti di soggetti ormai estinti, posto che, come noto, l’art. 2495 c.c. è interpretato nel senso che la cancellazione della società dal Registro imprese è condizione sia necessaria sia sufficiente per causarne l’estinzione, anche se ci sono pendenze tributarie in corso.
Sembra quindi probabile che, nei giudizi in corso, gli enti impositori tentino di sostenere la tesi della retroattività.
Pur non intendendo prendere posizione sulla fondatezza di questa affermazione, bisogna evidenziare come, a ben vedere, una siffatta ermeneutica non sempre va a danno del contribuente, “per definizione” parte debole del rapporto.
Pensiamo ad una società cancellatasi dal Registro dopo la sentenza di primo grado magari completamente sfavorevole. In detta ipotesi, se, per errore, l’appello è stato notificato dalla società e non dal socio fiscalmente responsabile, l’impugnazione è inammissibile.
Ora, se la norma è retroattiva il tutto diviene ammissibile posto che la società è “risorta”. L’esempio vale anche quando l’appello sia stato per sbaglio notificato dall’ente impositore al soggetto estinto.
Ma questa “resurrezione” non può di certo ledere la difesa del contribuente.
Prima del decreto semplificazioni fiscali, era palese come l’accertamento intestato al soggetto estinto fosse inesistente, per cui l’ex liquidatore, in qualità di ultimo legale rappresentante della società, ben avrebbe potuto omettere il ricorso, tanto nessun effetto negativo si sarebbe potuto verificare.
Tutte le problematiche su Schede di aggiornamento
Optando per la tesi della retroattività, non è più così: addirittura quell’accertamento può fondare la responsabilità del liquidatore stesso ai sensi dell’art. 36 del DPR 602/73.
Ammettendo che il soggetto estinto possa ricevere l’atto esattivo formato sulla base dell’accertamento oramai definitivo, sarebbe incostituzionale e inaccettabile che l’ex contribuente non possa censurare il merito della pretesa in virtù dell’autonomia degli atti impugnabili di cui all’art. 19 comma 3 del DLgs. 546/92.
È doveroso che, se si ammette l’interpretazione retroattiva, il contribuente non solo possa ma debba difendersi sollevando ogni eccezione, di merito o di legittimità, che avrebbe potuto eccepire qualora avesse impugnato l’atto nei termini.
Ad ogni modo, le problematiche non si esauriscono qui, siccome ci potrà essere l’ipotesi dei rapporti “coperti” dal giudicato, dell’appello non presentato per difetto di parti legittimate (società che si estingue senza soci che hanno ricevuto somme dal bilancio di liquidazione) e così via. Tutte le casistiche potenzialmente suscettibili di verificarsi saranno debitamente trattate nel numero di dicembre di Schede di aggiornamento.
Fonte: Eutekne autore Alfio CISSELLO

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